Pubblicato il Marzo 15, 2024

Il futuro dell’impresa familiare non sta nel sostituire la famiglia, ma nell’ibridare il suo DNA con una struttura manageriale professionale.

  • Questo richiede la delega operativa a manager esterni misurabili attraverso KPI chiari e sistemi di reporting trasparenti.
  • Implica la trasformazione del ruolo del fondatore da “padrone” operativo a custode strategico del patrimonio e della visione aziendale.

Raccomandazione: Iniziare con una mappatura oggettiva dei processi e la definizione di un organigramma che separi nettamente i ruoli operativi, la proprietà e le dinamiche familiari.

Nel cuore del tessuto economico italiano, pulsano le imprese familiari. Sono il motore del “Made in Italy”, custodi di un’eredità costruita su sacrifici, intuizioni e un profondo legame con il territorio. Tuttavia, proprio questa forza, il DNA familiare, può trasformarsi in un limite quando l’azienda arriva a un bivio cruciale: la necessità di scalare per sopravvivere e competere in un mercato globale. Molti imprenditori si sentono dire che per crescere devono “digitalizzare”, “internazionalizzare” o “managerializzare”, consigli validi ma che spesso suonano come una minaccia all’identità stessa dell’impresa.

Ma se la vera sfida non fosse scegliere tra tradizione e innovazione, ma fonderle in un modello ibrido? Se la chiave non fosse sostituire la famiglia, ma dotarla di strumenti e strutture per governare la complessità? Questo articolo rifiuta la visione dicotomica tra “vecchio padrone” e “nuovo manager”. L’obiettivo non è snaturare l’azienda, ma costruire un’infrastruttura di fiducia che permetta di delegare l’operatività quotidiana per concentrarsi sulla strategia a lungo termine. Si tratta di un percorso di trasformazione che trasforma il fondatore in un custode strategico e l’eredità in una leva competitiva, non in un vincolo.

Attraverso un percorso strutturato in otto passaggi fondamentali, esploreremo come implementare modelli manageriali moderni in modo rispettoso ma efficace. Analizzeremo come delegare con intelligenza, digitalizzare i processi storici, strutturare l’organizzazione e pianificare la crescita finanziaria oltre i canali tradizionali, il tutto mantenendo salda l’anima che rende unica ogni impresa familiare italiana.

Delegare le decisioni operative ai manager esterni

La prima, e forse più difficile, barriera da superare per un’impresa familiare italiana è la delega. L’idea di affidare decisioni operative a una figura esterna alla famiglia va contro decenni di cultura imprenditoriale basata sul controllo diretto. Tuttavia, i dati mostrano una realtà cruda: la mancanza di managerializzazione è una delle cause principali della mortalità aziendale durante il passaggio generazionale. Studi di settore evidenziano che in Italia, delle circa 35.000 imprese familiari coinvolte ogni anno in un ricambio, solo il 30% circa sopravvive con la seconda generazione. Questo accade perché il 66% delle aziende familiari italiane ha un management composto esclusivamente da familiari, contro poco più del 30% della media europea.

Manager professionista in riunione con membri di famiglia imprenditoriale in sala consiglio moderna

Integrare un manager esterno non significa “perdere il controllo”, ma piuttosto “professionalizzare il controllo”. L’obiettivo è spostare il focus della famiglia dalla gestione quotidiana (l’operatività) alla supervisione strategica (la governance). Questo passaggio richiede la costruzione di un’infrastruttura di fiducia, basata su regole chiare, obiettivi misurabili e un processo di inserimento graduale. Un manager esterno porta competenze specifiche, una visione oggettiva e la capacità di implementare processi che l’imprenditore, immerso nell’operatività, non ha il tempo di strutturare.

Piano d’azione: Integrare un manager esterno con successo

  1. Formalizzare il processo decisionale: Utilizzare strumenti come il ‘patto di famiglia’ per definire regole chiare e raggiungere un consenso unanime sui contenuti strategici, separando le decisioni aziendali da quelle familiari.
  2. Distinguere i ruoli: Applicare il modello dei tre cerchi di Poza (famiglia, impresa, proprietà) per chiarire chi ha responsabilità operative e chi ha un ruolo di azionista, evitando sovrapposizioni.
  3. Coinvolgere un professionista della transizione: Valutare un interim manager specializzato in passaggi generazionali, con competenze non solo manageriali ma anche giuridiche, fiscali e psicologiche per mediare il cambiamento.
  4. Definire KPI e reporting: Stabilire indicatori di performance (KPI) chiari e un sistema di reporting agile per monitorare le performance del manager esterno in modo oggettivo e trasparente.
  5. Implementare una delega graduale: Avviare il percorso affidando al nuovo manager responsabilità limitate, ad esempio in filiali secondarie o mercati esteri, per testarne le capacità e costruire fiducia reciproca.

Questo processo non è solo un cambiamento organizzativo, ma un profondo cambiamento culturale che pone le basi per una crescita sostenibile e duratura.

Digitalizzare i processi cartacei storici

Mentre la delega riguarda le persone, la digitalizzazione riguarda i processi. Un manager, per quanto competente, non può operare efficacemente se l’azienda si basa su archivi cartacei, procedure manuali e decisioni basate sull’intuito. La digitalizzazione è il sistema nervoso che permette all’infrastruttura di fiducia di funzionare. Non si tratta di acquistare l’ultimo software di moda, ma di mappare i flussi di lavoro esistenti e reingegnerizzarli in chiave digitale per renderli più efficienti, misurabili e trasparenti. Questo passaggio è così cruciale che è diventato uno dei principali driver di investimento per i capitali esterni; non a caso, sono stati investiti 91,3 miliardi di euro dai fondi di private equity in Italia tra il 2014 e il 2023, in gran parte per finanziare la modernizzazione delle PMI.

La trasformazione digitale permette di passare da una gestione basata sulla memoria storica del “padrone” a una gestione data-driven. Questo significa che le decisioni non sono più prese solo “a sensazione”, ma supportate da dati oggettivi provenienti da un sistema ERP, da dashboard di Business Intelligence o da un sistema di controllo di gestione. Per la famiglia imprenditrice, questo si traduce in una capacità di controllo superiore, anche senza essere presenti fisicamente in azienda ogni giorno. È il modo per “vedere” cosa succede senza dover “fare” tutto in prima persona.

Il confronto tra una gestione tradizionale e una digitalizzata mostra chiaramente i benefici tangibili di questa evoluzione, come evidenziato da recenti analisi sul passaggio generazionale.

Evoluzione digitale delle PMI italiane: prima e dopo la digitalizzazione
Aspetto Gestione Tradizionale Gestione Digitalizzata Impatto sul Business
Decision Making Basato su intuito imprenditoriale Data-driven con dashboard BI +40% accuratezza decisioni
Processi Operativi Cartacei e manuali ERP integrato -30% tempi di processo
Controllo Gestione Controlli periodici manuali Monitoraggio real-time KPI +25% efficienza produttiva
Gestione Magazzino Registri fisici Sistema WMS automatizzato -20% giacenze di magazzino

Implementare questi sistemi non è solo un aggiornamento tecnologico, ma un prerequisito fondamentale per strutturare un’organizzazione scalabile e attrattiva per talenti e capitali esterni.

Strutturare un organigramma chiaro e funzionale

Nelle imprese familiari, spesso l’organigramma è implicito, basato su legami di parentela più che su competenze e responsabilità. Il “figlio del capo” ha un’autorità che travalica il suo ruolo formale, creando ambiguità e inefficienze. Per scalare, è imperativo passare da questa struttura informale a un organigramma formale e funzionale, dove ogni casella rappresenta un ruolo con obiettivi, responsabilità e KPI ben definiti, indipendentemente da chi la occupa. Questo è il pilastro su cui si fonda la meritocrazia e la capacità di attrarre manager esterni.

Uno strumento fondamentale per questo processo è il modello dei tre cerchi, teorizzato da uno dei massimi esperti mondiali del settore, che aiuta a districare la complessità intrinseca di queste aziende.

Il modello utilizzato da Ernesto Poza – tra i più noti consulenti al mondo in materia di gestione e sviluppo delle aziende familiari – è formato da tre sottosistemi: la famiglia, l’impresa (il business) e la proprietà. Nonostante siano insiemi indipendenti, interferiscono tra loro, condizionandosi a vicenda. Bisogna fare in modo che non sia un gioco a somma zero, dove chi vince lo fa a spese dell’altro.

– Ernesto Poza, TIM Management – Studio sul passaggio generazionale

Applicare questo modello significa rispondere a domande cruciali: un membro della famiglia può essere un dipendente (cerchio impresa), un socio (cerchio proprietà) e un parente (cerchio famiglia) contemporaneamente. Un organigramma chiaro definisce le regole di ingaggio per ciascun ruolo. Questo è particolarmente rilevante in contesti come l’Alto Adige, dove il 93% delle imprese nel settore privato è a controllo familiare, dimostrando come la formalizzazione sia vitale per la sopravvivenza economica di intere regioni.

Rappresentazione visiva simbolica della struttura organizzativa con cerchi interconnessi che rappresentano famiglia e business

Questa separazione dei ruoli non indebolisce la famiglia, al contrario: la protegge, consentendole di governare l’impresa in modo più strategico ed efficace, al riparo dai conflitti operativi quotidiani.

Evitare la dipendenza dal “padrone”

Il più grande asset e, contemporaneamente, il più grande rischio per un’impresa familiare è il suo fondatore. Il “padrone” è il depositario della conoscenza, delle relazioni e della visione. Ma quando l’intera azienda dipende da una sola persona, la sua crescita è intrinsecamente limitata e la sua sopravvivenza è a rischio. Il problema è acuito dal fatto che molti imprenditori tendono a posticipare questo delicato passaggio. Dati ISTAT rivelano una tendenza preoccupante: il 71% degli imprenditori affronta il problema della successione tra i 60 e i 70 anni, e un incredibile 67% lo posticipa addirittura oltre i 70 anni, quando l’urgenza e la complessità sono massime.

Per evitare la “sindrome del padrone”, è necessario avviare un processo strutturato di transizione che trasformi il ruolo del fondatore da centro operativo a mentore e custode strategico. Questo significa documentare il know-how tacito, trasferire gradualmente le responsabilità decisionali e ridefinire il proprio apporto di valore. Un’idea potente è la creazione di un “Manuale Operativo Strategico”, un documento che codifichi non solo i processi, ma anche la storia delle decisioni chiave, i contatti strategici e la filosofia aziendale. Questo manuale diventa un ponte tra le generazioni e un acceleratore per l’inserimento di manager esterni.

La transizione non è un evento, ma un percorso. Deve iniziare anni prima del pensionamento effettivo, consentendo alla nuova leadership (familiare o manageriale) di crescere, commettere errori controllati e guadagnare la fiducia dell’organizzazione. Il fondatore può mantenere un ruolo cruciale nel consiglio di amministrazione, nella gestione delle relazioni istituzionali o come mentore per i giovani talenti, liberando il suo tempo per la visione strategica anziché per l’emergenza quotidiana.

In questo nuovo assetto, il valore del fondatore non diminuisce, ma si trasforma, diventando il garante della continuità e dell’anima dell’impresa nel suo percorso di crescita.

Pianificare il controllo di gestione industriale

Se la digitalizzazione fornisce i dati, il controllo di gestione è lo strumento che li trasforma in informazioni utili per decidere. Per un’impresa manifatturiera, questo è ancora più critico. Non basta sapere quanto si fattura; è fondamentale conoscere il costo primo di ogni prodotto, il margine di contribuzione di ogni commessa, l’efficienza di ogni macchinario (OEE) e i colli di bottiglia del processo produttivo. Questo livello di analisi è ciò che distingue un’azienda che subisce il mercato da una che lo guida strategicamente. Inoltre, un sistema di controllo di gestione robusto è un requisito non negoziabile per attrarre investitori esterni come i fondi di private equity.

Un’analisi di Cerved sulle PMI target per i fondi di private equity rivela che, sebbene la maggioranza si trovi nel Nord-Ovest, è nel Mezzogiorno che si registra la maggiore incidenza relativa (3,3%). Queste aziende, prevalentemente nei servizi e nell’industria, sono mediamente più innovative rispetto al resto delle PMI, proprio perché spesso dotate di sistemi di monitoraggio più evoluti. Pianificare il controllo di gestione significa quindi dotarsi di una “scatola nera” che registra le performance aziendali in tempo reale, permettendo al management e alla proprietà di intervenire tempestivamente e con cognizione di causa.

L’implementazione di un sistema di KPI (Key Performance Indicators) specifici per il settore manifatturiero è il primo passo per un monitoraggio efficace.

KPI essenziali per il controllo di gestione nelle PMI manifatturiere
KPI Formula Target PMI Frequenza Monitoraggio
OEE (Overall Equipment Effectiveness) Disponibilità × Performance × Qualità > 85% Giornaliera
Costo Primo Materie Prime + MOD < 60% fatturato Mensile
Margine di Contribuzione (Ricavi – Costi Variabili) / Ricavi > 35% Mensile
Lead Time Produzione Tempo totale ciclo produttivo < benchmark settore Settimanale
Tasso Difettosità Prodotti difettosi / Prodotti totali < 2% Giornaliera

Questi strumenti trasformano la gestione da un’arte soggettiva a una scienza misurabile, abilitando una crescita controllata e profittevole.

Ditta Individuale o SRL Semplificata: quale struttura protegge meglio il tuo patrimonio personale?

Prima ancora di pianificare la managerializzazione, una scelta fondamentale riguarda l’abito giuridico dell’impresa. Molte aziende familiari nascono come Ditte Individuali, una forma snella e poco costosa, ma che espone l’imprenditore a un rischio enorme: la totale fusione tra il patrimonio aziendale e quello personale. In caso di difficoltà, i creditori possono rivalersi sulla casa, sui risparmi e su ogni bene dell’imprenditore. Questa è una base fragile su cui costruire un progetto di crescita. L’importanza di una struttura solida è evidente se si considera che in Italia, così come in Francia e Spagna, le imprese familiari costituiscono l’80% delle attività imprenditoriali, un patrimonio immenso da proteggere.

Il passaggio a una Società a Responsabilità Limitata (SRL), anche nella sua forma Semplificata (SRLS), rappresenta un salto di qualità fondamentale. La SRL crea uno scudo giuridico, una separazione netta tra i beni della società e quelli dei soci. La responsabilità è limitata al capitale sociale versato. Questo non è solo un dettaglio tecnico, ma un prerequisito strategico per diversi motivi. In primo luogo, protegge la famiglia da eventi avversi. In secondo luogo, conferisce all’azienda una maggiore credibilità bancaria e commerciale, facilitando l’accesso al credito. Infine, una SRL è strutturalmente predisposta per la crescita: permette di far entrare nuovi soci o investitori (come un fondo di private equity) in modo molto più semplice, attraverso la cessione di quote.

La scelta non è banale e va ponderata attentamente, valutando i costi di gestione di una SRL rispetto ai benefici in termini di protezione e scalabilità. Tuttavia, per un’impresa che ambisce a crescere, a strutturarsi e a durare nel tempo, la limitazione della responsabilità non è un’opzione, ma una necessità. È il primo passo per pensare all’azienda non come a un’estensione di sé stessi, ma come a un’entità autonoma destinata a prosperare oltre la vita del suo fondatore.

Scegliere la giusta forma societaria è come gettare le fondamenta di un edificio: una scelta sbagliata all’inizio può comprometterne la stabilità futura.

Pianificare il “Reverse Mentoring” digitale

La managerializzazione e il passaggio generazionale non sono un processo a senso unico, in cui la vecchia generazione “insegna” alla nuova. In un’era di trasformazione digitale, il flusso di conoscenza deve essere bidirezionale. Il “Reverse Mentoring” è un approccio innovativo in cui sono le generazioni più giovani, i nativi digitali, a formare le generazioni più senior su tecnologie, nuovi canali di comunicazione e dinamiche di mercato emergenti. Questo crea un ponte culturale e di competenze fondamentale per l’innovazione. È un modo per valorizzare il potenziale dei “millennials” e della “Generazione X” che spesso si trovano in posizioni di middle management.

Come sottolinea un esperto del settore, il tempismo per questo scambio intergenerazionale è perfetto, data la demografia attuale della leadership aziendale.

La maggior parte delle imprese familiari è guidata dai cosiddetti baby boomers, cioè da coloro che hanno tra i 55 e i 70 anni. Urge un passaggio di consegne alla generazione X, coloro che nel 2019-2020 hanno fra i 40 e i 55 anni. E’ una generazione molto capace sia di leggere gli ultimi dati del precedente paradigma tecnologico, ma anche di comprendere le dinamiche del nuovo paradigma tecnologico e sociale. Seguono i millennials, che oggi hanno delle posizioni di middle management, ma che presto prenderanno in mano delle posizioni di leadership.

– Salvatore Sciascia, We Wealth – Intervista sul passaggio generazionale

Il contributo delle nuove generazioni va oltre la semplice competenza tecnica. Come dimostrano diverse esperienze, il loro ingresso in azienda porta a un riposizionamento del brand, a una spinta verso l’internazionalizzazione e a una maggiore sensibilità verso la sostenibilità e la responsabilità sociale. Il Reverse Mentoring formalizza questo scambio, legittimando il ruolo innovatore dei più giovani e accelerando l’aggiornamento culturale dei senior. Non si tratta di minare l’autorità, ma di riconoscere che l’esperienza del fondatore e la fluidità digitale dell’erede sono due facce della stessa medaglia: il futuro dell’azienda.

Pianificare sessioni strutturate in cui i giovani spiegano l’uso di LinkedIn per il B2B o le basi dell’e-commerce ai senior può avere un impatto trasformativo sull’intera cultura aziendale.

Da ricordare

  • Separare i ruoli di famiglia, proprietà e business attraverso un organigramma chiaro è il fondamento per una gestione professionale e meritocratica.
  • L’evoluzione del fondatore da “padrone” operativo a “custode strategico” è la chiave per sbloccare la crescita e garantire la continuità aziendale.
  • Strumenti manageriali come KPI, reporting digitale e controllo di gestione non sono burocrazia, ma l’infrastruttura che abilita la fiducia e la delega efficace.

Finanziare la crescita aziendale oltre il canale bancario

Una volta che l’impresa ha rafforzato la sua struttura manageriale, digitalizzato i processi e chiarito la governance, diventa molto più attrattiva per forme di finanziamento alternative al tradizionale canale bancario. La crescita, soprattutto quella rapida, richiede capitali che le banche, spesso focalizzate su garanzie patrimoniali, non sempre sono disposte a erogare. Aprire il capitale a investitori esterni come fondi di private equity, venture capital o emettere minibond diventa una possibilità concreta. Questi partner non portano solo risorse finanziarie, ma anche competenze manageriali, un network di contatti e una disciplina strategica che possono accelerare esponenzialmente lo sviluppo dell’azienda.

Molti imprenditori familiari temono di “vendere l’anima al diavolo”, ma la realtà moderna è molto diversa. Spesso questi fondi acquisiscono quote di minoranza (20-40%), lasciando il controllo alla famiglia e agendo come partner strategici. I risultati di queste operazioni sono estremamente positivi: secondo un’analisi AIFI-LIUC, le operazioni di disinvestimento di private equity in Italia garantiscono ritorni notevoli, con un cash on cash medio di 2,3 volte e un IRR del 23%. Questo dimostra la capacità di questi fondi di creare valore reale.

Nel 2023, i fondi di private equity sono stati protagonisti in 74 operazioni su aziende familiari italiane, per un controvalore di 3,24 miliardi di euro, confermandosi interlocutori cruciali per la crescita. Oltre al private equity, strumenti come i minibond (prestiti obbligazionari per PMI), il direct lending (prestiti diretti da fondi specializzati) o l’invoice trading (cessione di fatture) offrono flessibilità e liquidità senza diluire la proprietà. La chiave è preparare l’azienda a essere “investor ready”, e tutti i passi descritti in questo articolo vanno esattamente in quella direzione.

Per tradurre questa visione strategica in un piano operativo, il passo successivo è avviare un’analisi diagnostica della vostra struttura attuale e definire una roadmap chiara per la managerializzazione e l’apertura a nuovi capitali.

Scritto da Giovanni Ricci, Dottore Commercialista e Revisore Legale con 18 anni di esperienza nella consulenza fiscale per PMI e liberi professionisti. Specializzato in pianificazione fiscale, gestione di Partite IVA e strategie di crescita aziendale nel mercato italiano.